Martina Campi

00 (00) Copertina

00 (01) Fiona

Mi piace camminare. Cammino per ore, lungo pomeriggi grigi di malinconia condensata. Vado sotto i portici, vado a piedi fino in centro, sudo e poi, qualche volta, scivolo:
impreco sottovoce e vedo la gente sogghignare mentre mi scavalca o mi evita, come farebbe con la pozzanghera tra la strada e il marciapiede.

Come entrare da Limoni e passarci anche qualche ora, magari! Camminare mi rilassa.
Tra scaffali di profumi e creme e saponi. Volo in paesi lontani, Senza navi, senza aerei. Mi basta svitare il tappo di una bottiglietta: aspiro l’aria e parto. Luoghi inesplorati, giardini rigogliosi o spiagge caraibiche. Cammino scalza su una sabbia bianchissima e calda, all’ombra di palme alte fino al cielo senza nuvole, sorseggiando un cocktail di frutta.

Qualche volta torno giù a casa mia, anche.
Ritrovo mia sorella, le racconto quello che faccio quassù.
Poi esco nel buio del pomeriggio e cammino ancora.
Vado da Ricordi, o da Nannucci. Cerco qualche cd da ascoltare per un po’. Anche questo mi rilassa.
A volte il ragazzo si sarà irritato, perché gli chiedo un sacco di dischi che ascolto e poi lascio lì, oppure perché gliene chiedo uno di cui non ricordo il titolo, ma solo la copertina, come quella volta con i Lemongrass: quel cd con il fungo.
Altre volte gli dico il mio stato d’animo e insieme cerchiamo qualcosa che vada bene. È così che ho comprato Wish, di Joshua Redman, e anche molti altri.
Infatti qualche volta alla fine compro.

Poi torno fuori, a camminare.
Penso a tutto quello che devo fare, tutto quello che mi manca e che non ho. Quello che ho perso. O che non ho mai visto.
A volte quassù mi sento sola.
Così sola che…non lo so.
Mi dicono che sono una sognatrice, che vivo tra le nuvole. Forse hanno ragione.
Ho provato a tenere un diario una volta, scriverci dei racconti, ma non fa per me. I pensieri scivolano via troppo veloci. Non li so fermare, perché con la testa sono già altrove e le immagini si susseguono nella mente come in un dvd a velocità 16.

Io sono tutto in questo film: sono la protagonista, sono la sceneggiatrice, sono la regista. Sono anche il resto della truppa. Qualche volta i miei film prendono la strada della realtà e tutto accade veramente, quando sogno.
Poi qualcuno bussa alla porta, o la sveglia suona e allora sento dentro di me, dalla testa alle dita dei piedi, un freddo glaciale e subito mi ritrovo sul pavimento.

E questa è la realtà.
Molte volte sono finita sul pavimento.
Molte volte all’ospedale.
Molte volte ho chiuso con la realtà ogni contatto.
Non ha mai funzionato.
Non mi ha mai salvata.

00 (02) Fiona 1

Era una mattina di gennaio.
Tornavo dalla facoltà ed ero leggera leggera, perché un esame in meno mi pesava sullo stomaco. Matematica. Uno di quelli grossi. Gli stavo dietro da mesi.
Riaprivo gli occhi: e finalmente il mondo riprendeva a.
Tutto intorno a me tornava reale, lo potevo sentire, toccare. Respirare e c’era anche la neve, che cadeva giù dal cielo.
Grossi fiocchi di neve si posavano sulla mia mano e su ogni superficie: auto, balconi, pensiline, cestini, cassette postali.

Ed era vero, era tutto vero. Continuavo a ripetermelo, per crederci di più.
Ho preso il 20 per non bagnarmi i piedi e quando sono arrivata a casa c’era una musica bianca, come il prato del condominio.
Le mie coinquiline erano in cucina. Dal nostro sesto piano, stavano guardando giù, ascoltando La Sposa Occidentale di Battisti.

Per la prima volta da tanto tempo mi sentivo felice, il sogno si fondeva con la realtà ed era tutto per me. Avevo fretta di vivere. Sono andata sulla terrazza, piena di neve. Il tavolino di plastica si era rovesciato, e anche una sedia. Ho preso un po’ di neve e ne ho fatto una palla. L’ho tirata contro il vetro dietro cui stavano le due facce delle mie coinquiline e quando si è spiaccicata ho cominciato a ridere. Non mi fermavo più. Ero dietro una scia di luce bianca e volavo, volavo. Volavo lontano, dove vanno le nuvole e gli aeroplani non possono arrivare.
Ed era tutto quello che volevo, quello stare bene.
Sono uscite anche loro.

Siamo scese nel prato dietro casa, quello tra i condomini e la ferrovia. Dove di notte ci vanno le prostitute, ed il prato di solito è disseminato di preservativi usati. Adesso tutto era bianco. Tutto era liscio, morbido.
Qualche volta abbiamo spiato in silenzio quegli incontri notturni.

Una volta vedemmo qualcuno scavare una buca, accanto ad un cespuglio. Era stato un uomo a chinarsi e scavare, mentre nel frattempo, la donna era rimasta distante, accanto all’auto, a fumarsi una sigaretta.
Il giorno seguente andammo a verificare, ma non trovammo niente di niente.
A parte i soliti preservativi usati ed un piccione morto.
 Ma quel giorno, con la neve, il prato era bellissimo, tutto era bellissimo. Era magico. Periferia ricoperta di bianco.

È per questo che mi dicono sognatrice.
O anche pazza. Come quel giorno che andai da una zingara per farmi predire il futuro.

Non avevo soldi con me, solo un pacchetto di sigarette comprato apposta per lei. Solo che la zingara invece aveva voluto i soldi, dopo avermi parlato di un aborto. Così dovetti correre via. Con il cuore che mi martellava nel petto, dovetti scampare le sue maledizioni, per poi tornare la settimana dopo con i soldi, dato che non ci dormivo più la notte.

00 (03) Francesco

Descrizione analitica di un malessere.
Morsa allo stomaco. Inappetenza. Assenza di concentrazione. Battito cardiaco: fastidioso.
Insicurezza. Insicurezza. Insicurezza.
Certe mattine ti svegli proprio male e forse non è neanche il tempo. Oggi fuori il cielo è grigio, ma se ci fosse stato il sole non sarebbe cambiato molto.
Non esistono vite facili o difficili. Siamo capaci di rovinarci la vita più bella e di risorgere dall’inferno peggiore.
Abbiamo in genere buone capacità di adattamento, e siamo in genere bravi ad usarle.
Mi sto chiedendo se sia davvero un bene.
Penso alle cose che mi devo far piacere. Cose poco importanti.
Penso alla disperazione dei successi degli altri.
A volte sembra tutto difficile e, dopo poco, sembra tutto insignificante. Sempre difficile, ma senza importanza.

Capita che dai importanza a cose che non ne hanno, perché le cose importanti davvero non vanno mai come devono andare.

Puoi andare in un posto convinto che sia terribile e all’interno troverai solo cose terribili. Puoi andarci senza pensarci e magari non sarà tutto brutto.

Entro ed esco continuamente da mondi tanto diversi tra loro; ma come possono essere tutti così popolati? Cosa ci fa in giro tutta questa gente? E cosa fa la gente?
È impossibile conoscere il comportamento degli altri in ogni occasione.
Corrono, si danno da fare e appena le cose vanno bene sembrano cambiare. Tutto sbagliato.
Il tempo non basta a risolvere i problemi.

Cambia il volume della musica, la densità delle parole, il senso dell’umorismo, l’importanza delle cose, l’attenzione.

Pensaci un attimo, prima di seguire la strada segnata.

A volte si vola troppo vicini.





00 (04) Francesco 1

Bel sole oggi.
Fa bene il Sole, in alcune ore sembra volerci soffocare ma non è così, il Sole mette di buon umore, invoglia ad uscire normalmente, ad andare al mare in estate.
(In realtà io odio il caldo molto più del freddo).
Il massimo splendore lo raggiunge al tramonto: impossibile imitare quell’atmosfera, impensabile ricrearla artificialmente. Al tramonto stai bene solo a respirare.
Poi viene la notte: la notte può fare schifo davvero. Può mettere tristezza, può far paura, rendere tutto nero e non far dormire. Ma la notte in estate è più buona, si può uscire. Fuori fa caldo, nell’aria si sta bene, a allora alzi la testa e ti perdi in quei puntini, ognuno dei quali illumina cose distanti nel tempo e nello spazio e nell’immaginazione.





00 (05) Daria

Ancora quest’ultimo capitolo e poi, finalmente, potrò andarmene in palestra.
Non che sia una tipa sportiva: ci vado solo per tenermi in forma. Magari conoscere gente simpatica.
Io e la mia coinquilina abbiamo deciso di dedicare ai nostri muscoli un due – tre ore la settimana di palestra, così da non diventare delle flaccidone a causa della nostra vita sedentaria.

Quella volta, al corso di aerobica-step ci restammo secche. Dopo quindici minuti di salti, gradino, pesi ed elastici, eccoci già senza fiato, con la lingua rasoterra, come cani d’estate.
Non scherzo, un quarto d’ora..! E la sala era piena, davvero piena! di donne di mezza età – non c’era spazio, lo giuro. Tanto che io continuavo a sbattere contro il muro con le braccia – che saltellavano regolari su e giù, a destra e sinistra, senza il minimo segno di cedimento.
Ci siamo guardate, io e la mia coinquilina e, dopo altri dieci minuti di sforzo furioso, ce la siamo filata su per la scala degli spogliatoi femminili.
Portammo a casa un dolore che durò una settimana.

Così, questo fu il fatto scatenante. Costanza e impegno, e allora sì, avremmo ridisceso i gradini dell’aerobica-step.
Ci dedichiamo regolarmente agli esercizi: ogni martedì e giovedì. A volte anche di mercoledì, quando siamo a casa tutte e due, perché abbiamo deciso di andarci insieme.
Il nostro istruttore, un personal trainer, ci ha stampato un programma su misura. L’esercizio con il bastone però lo saltiamo sempre: è ridicolo, per non dire umiliante. Finora lui non sembra essersene accorto, e comunque io dico che quell’esercizio non serve neanche a niente.

Adesso ho questo capitolo di Storia Economica, poi mi infilo la tuta e si va.
Fuori piove. Tocca portare le scarpe di ricambio.

00 (06) Daria 1

Discutere mi destabilizza, non scherzo.
Mi ricorda che non interesso. Che nessuno mi vuole bene.
Ama stare in mia compagnia. Troppo silenziosa, troppo riservata. I ragazzi non mi notano neanche.
Le amiche non mi sostengono.
Le coinquiline mi danno per scontata.
Ai miei genitori sono indifferente.

Quella sera eravamo al Fumiginoso: era la mia serata preferita, quella dei bigliettini. Ne avevo scritti a decine, tutte risposte per le mie coinquiline -in particolare per Rosy, la mistress tettona. Tutti i maschi le strisciano dietro, mentre lei li calpesta con sguardi che promettono e poi ride, guardando per aria.
È senza pietà, veramente- E per me quante? Una?
Sì, è vero, ci siamo scambiati il numero. Con quel ragazzo poi ci siamo anche visti. Non era malaccio, ma è finita lì.
Un gelato, una passeggiata sotto i portici. E poi a casa.
Sola, come sempre.
Ho ancora il suo bigliettino esistenziale qui, da qualche parte. Scriveva molto meglio di quanto parlasse.

I miei libri sono la certezza. Lo studio.
E adesso questa discussione, con Rosy, sempre lei.
Va beh che tra un po’ cambia casa e se ne va, ma non la sopporto più. Ha rovinato il clima che c’era qui dentro, non scherzo. Che ci posso fare se non la sopporto? Davvero io non la sopporto quella Rosy la mistress tettona.
Vuole tutta l’attenzione su di sé. Sempre. Costantemente. Concentrata su di sé. E intanto continua a sparare le sue scemenze, non la sopporto.
L’ho lasciata lì, a parlare al corridoio vuoto. Sul serio, me ne sono andata. Ho preso il mio piatto di puré e me ne sono venuta in camera, a finirlo. Perché non ce la facevo proprio più a starla a sentire, mi stava mandando la cena di traverso.
E lei che fa? Che fa lei? Si sente offesa e mi viene dietro.
Io non ho voglia di parlare. Non ho voglia di dirle che non vedo l’ora che esca da quella porta per non vederla mai più. Non ne ho voglia, non mi interessa.

Volevo solo mangiare la mia cena e vedermi La Tata in santa pace, ma lei no, lei doveva continuare a parlare di questo e di quello e di quest’altro. Quanto è figo questo, quanto scopa bene quello…e basta! Ma che me ne importa. Ma lasciami in pace, invece di abbassare il volume. E che cavolo!
E adesso: mi bussa alla porta e vuole un chiarimento: Non si va via così, mentre uno ti sta parlando. Non è bello.
Che scocciatura.
Mi tocca dirle che dividiamo solamente un tetto. Un tetto e basta, non per questo dobbiamo essere amiche.
Tocca dirle che mi importa niente di quello che fa, che non me lo racconti, come io non racconto a lei quello che faccio io, perché non abbiamo niente altro da condividere, che non sia questo tetto. E ancora per poco.
Poi se ne va, forse è rimasta senza parole. Chiude la porta.

E io resto qui, il piatto vuoto, ad aprire il libro e ripassare.

00 (07) Carlo

Zero sbattimenti.
Questo è il mio motto.
Sono nato per caso nei dintorni di Londra. Mi piace dirlo.
Ma sono qui da sempre.

Praticamente sono al cinema tutte le sere che non lavoro; in questi giorni, mi sto vedendo tutti quelli di Tsui Hark non sono cartoni sono film spettacolari e poetici di arti marziali, ne ho già visti tre favolosi (erano capolavori annunciati). Ora aspetto i prossimi, ma è garantito che mi piaceranno.

Sono supermurato di impegni perché sto anche scrivendo un lungometraggio sono a pagina 90 -tra una trentina è finito - Ma prende molta energia e concentrazione, redbull e tanto sonno e tanti film.

Andate al cinema!







00 (08) Carlo 1

Sono della bilancia, se a qualcuno può interessare.
Questo il mio oroscopo di oggi:
“Puoi muoverti con successo sia nell’amore che nel lavoro, dimostrando con dolcezza la tua disponibilità. Che però ha un limite. Puoi farlo capire a chi ti interessa.”
Parola di Horus, la mia coinquilina che sta studiando Astrologia, per fare qualche soldo facile.
Ah, mi fa sapere che il mio pianeta è Venere.
In realtà io impazzisco per Marte, ma non ditelo troppo in giro. Non si sa mai. Zero sbattimenti.

Ho lasciato la casa dei miei perché mi stava stretta.

Ora rientro nella mia casetta nuova nuova…tutta incasinata. Libri, cd, DVD, pentole, piatti. Un gran casino.
La mia coinquilina non è messa meglio…
Solo noi possiamo trovare quello che cerchiamo in mezzo a questo caos, chiunque altro non riuscirebbe neanche ad entrare dalla porta.
Non saprebbe dove camminare, mettere l’occhio o il piede.

Stasera non ho tempo di riordinare.

Troppo da fare e così poco tempo.





00 (09) Allegra

Sono una strana energia che muove in silenzio,siamo strane energie.
Nel caldo di un’estate che ancora non è arrivata,nel ritmo lento dell'afa.
Ho avuto molte delusioni nel mio percorso-vita che ancora tornano tra i pensieri a volte, quando meno me lo aspetto.
Ritornano.

Anche stati di forte felicità. Devo imparare a controllarli.

Le cose sembrano aver preso la loro giusta strada ora…sono fiduciosa,soprattutto voglio cercare di esserlo.. le difficoltà non mancano, ma porto pazienza.

Ho imparato che nella vita non ci si ferma mai e che ci sono infiniti modi di crescere e cambiare. Alcuni li scegliamo, altri credo facciano parte di un grande disegno. A noi sta il modo di affrontarli e accettarli. Anche se la maggior parte delle volte –almeno per quello che riguarda me- non riusciamo a capire in che modo, ciò che accade, possa essere un bene per noi.
In questo momento mi sto riferendo a parecchie cose che riguardano me, ma penso che la storia valga un po’ per tutti.
O no?





00 (10) Allegra 1

E così eccomi qui, in questa notte rossastra e calda, con una piccola voglia di comunicare.

Già...pensavo ad alcune cose volando lentamente all'indietro, riordinando le stanze, spostando scatoloni e pensieri; e mi saltano fuori i giorni. Quei giorni.
Ho chiaramente sentito la presenza di una strana energia che si muoveva in silenzio tra noi, ormai estranei.
Non significa niente, se non che molte cose sfuggono alla nostra coscienza, ma mi ha fatto riflettere.
Un po'come quando si ha un deja vù...qualcosa di reale ma impalpabile che colpisce la parte più profonda di noi.
E va oltre la storia, l'esperienza, il ricordo.
Forse volevo condividere con te questa piccola cosa, perchè in fondo riguarda entrambi.

Mi rituffo nella notte, socchiudendo questa parentesi.

“La Via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la Via è fuggita avanti,
Devo inseguirla ad ogni costo
Rincorrendola con piedi alati
Sin all’incrocio con una più larga
Dove si uniscono piste e sentieri
E poi dove andrò? Nessuno lo sa.”

( da “IL SIGNORE DEGLI ANELLI”)





00 (11) Daniele

Quando ci incontriamo sospesi riscopro la magia che si cela nel vero, rendendolo profondo.

Così tanto da ritrovare, dentro e fuori.
Così breve il giorno.
Una pellicola sottile sottile sotto la quale pensare.
Semplicemente.

Freddo. Freddo. Stanchezza.
Voglia di qualcosa. Nuovo.

All is cold tonite. Tonite. Tonite.

Tra luce e ombra, eccoci qua.

Il silenzio, sulla notte bianca.
Sono nel vento e forse lontano da qui.

Tutto è freddo?
Notti d’inverno in cui si dimentica la luce del giorno.

Come ieri ci si perde –luoghi che non si vorrebbe abbandonare mai– per tornare limpidi. Stanotte.





00 (12) Daniele 1

Solita corsa al lavoro. Tran tran.
Lo sentite che clima basso c’è nell’aria oggi?
Tutto è un po’ ovattato. E questo silenzio un frastuono.
Però…oggi mi piace.
E mi piace questa stranezza.

Ho guidato tutta la notte e sto tornando a casa, e c’è questo arcobaleno gigantesco davanti a me.
E poi tutto quello che non ci è permesso vedere ma c’è.
(Come questo sole invisibile, nascosto da nuvole veloci…)






00 (13) Yuka

È il mio tempo questo.
Mi siedo nel sole e guardo le nuvole lontane.
Sono bianche e leggere.
Aspetto di fare quello per cui sono nata. E non importa se mi consumo le mani, se mi taglio i capelli, se non indovino il giorno. È il mio tempo per vivere. E me lo prendo tutto.
È la vita a portarmi qui, oggi. E domani chissà.
Sono libera, come una rondine.
E sono felice, come una rondine.

Vedo le luci delle case accendersi, ad una ad una.
È sera, qui sul viale e su tutta la città.
Hai sentito le campane.
Hai sentito la voce del giorno, raccogliersi in preghiera.
Guarderò la luna, più tardi, dalla mia finestra. La luna dei desideri. La luna dei ricordi.
Una sera perfetta, per un perfetto domani.




00 (14) Yuka 1

Nella mia stanza c’è la poca luce della lampada sul pavimento. Ed il materasso, accoglie un corpo stanco ed una mente lontana. È questa la mia strada, verso il me. Il mio me stessa, più duro da realizzare. Più di tutto quello da dimenticare. Per non restarne soffocata, in questa nostalgia che ho.
Dimentica, se puoi, i tramonti dell’est, non saranno veri, senza te. Ora che siamo lontani e sfuggenti.
Nessuno saprà la giusta luce di quelle vecchie foto, custodite in quella scatola sotterrata che è il mio cuore.
E non preoccuparti per me, se questi cieli invernali diventano grigi e non ci sono stelle, da guardare insieme.
La strada che ci divide, i nostri sogni.
Il mio sogno non mi abbandonerà.
Neppure se tu ora, o domani non so, tornassi indietro e poi partissi ancora.
Sono io dall’altro capo del mondo, lo so. Ma non questo importa, non più.
Non mi hai lasciato che un bacio.
Come hai potuto.




00 (15) Arthur

La comunicazione.
Come no. Io credo nella Comunicazione. E nello scambio di Informazione.
Molto importanti sono i mezzi, gli elaboratori. L’hardware ed il software. Perché l’informazione va raccolta, va rielaborata. Tramite una sequenze di istruzioni, va fatto.
Ci si deve uniformare sul formato.
Io credo nella potenza di calcolo.
Credo in una comunicazione che migrerà verso il digitale – meno rumore, più risoluzione –.
Io credo nella potenza della logica.
La logica, che è lo studio delle argomentazioni valide.
Bisogna stare attenti alla logica: uno stesso enunciato può essere usato per fare un’asserzione vera in una situazione e non vera in un’altra, per esempio. In pratica dipendono dalla situazione. Inoltre una parola può cambiare riferimento molte volte nel corso di una conversazione.
Ed ecco il bello: la verità - o non verità - di un enunciato dipende comunemente dal riferimento delle sue parti e questi riferimenti possono mutare da una situazione all’altra.
Essere consapevoli che spesso le regole vengono trasgredite.
E che in una situazione bizzarra può essere impossibile dire se un enunciato è vero oppure no, semplicemente perché la nostra lingua non è abbastanza articolata.
Possedere la logica significa possedere controllo.
Sapere esattamente dove si è. Sempre.
Come suonare un pezzo, improvvisare. Stare sul tempo.
Sapere dove si è.
Si comincia dalla pazienza, dalla costanza.
Dalla passione per l’apprendimento.
Giorni, mesi, anni.
Quando tutto il resto diventa invisibile il senso si fa più grande e succede che un giorno ne segue un altro, di obbiettivo in obbiettivo. Fino ad avere più tempo, avere più spazio di andare e venire.
Niente è irraggiungibile, vivendo.

00 (16) Arthur 1

Sono nato in un paesino sperduto sui monti della Francia.
A sedici anni ho lasciato la mia famiglia per trasferirmi a Parigi.
Ci ha pensato la vita a portarmi qui, almeno per il momento.

Una sera d’estate stavo camminando per le vie del centro. Ero solo e affamato. Tutti i miei amici erano via per le vacanze e le mie tasche erano vuote. Sentivo il caldo sciogliermi la cute, nonostante fossero quasi le dieci di sera.
Fame e inquietudine invece, mi squassavano lo stomaco.

Vidi un cancelletto aperto, che dava sul prato di una chiesa. Entrai ed il mio pensiero mi ricondusse per un istante a Parigi. Era buio, lì. E silenzio. Mi sedetti sul prato, la schiena poggiata al muro della chiesa. Rimasi così, per circa un’ora, a pensare.
I miei fratelli rimasti sui monti e gli altri sparsi per il mondo. Non ci sentivamo da anni. Non ricordavo più le loro voci, né quella di mia madre.
Quella di mio padre invece la sentivo, di tanto in tanto, rammentarmi gli aneddoti con i quali ci ha cresciuto, me e i miei fratelli. Quello era il suo modo di comunicare con noi, tramite aneddoti. E di insegnarci l’educazione e i fatti della vita. Molte volte non capivo, lì per lì. Allora il significato mi sarebbe tornato chiaro in seguito.

Mio padre. Un uomo di poche parole, che odia qualsiasi spreco. E per lui è stato un vero spreco vedermi partire senza certezze, come ho fatto.
Mi sembrava di sentirlo anche in quel momento, ripetermi una di quelle metafore sulla vita, e guardarmi con i suoi occhi duri, che nascondevano preoccupazione.
Ma poi era sbiadito, per restare un viso impresso su di un vetro, a muovere la bocca. Ed io non lo sentivo più.

C’era un caldo infernale, quella sera, continuavo a sudare.
Tirai fuori la tromba e intonai una ballata.
Lenta, quasi immobile.





È una strada che tutti dobbiamo percorrere: il ponte dei sospiri che porta all’eternità.
(I A 334, Kierkegaard).

00 (17) Ivan

I Cure sono stati (e sono tuttora) un pezzo della mia vita.
Ho trascorso l'intera adolescenza ascoltandoli (ho tutti i loro dischi) e li ho anche visti dal vivo 6 volte. Me ne sono sempre lasciato trascinare.
In effetti anche i loro testi hanno un grande valore poetico.
Trovo che la loro musica sia totale e racchiuda la mia stessa idea di poesia: una comunicazione di sé -della realtà- senza limiti imposti, nel senso che non decido a priori né i contenuti, né l'espressione, ma rispondo in primo luogo a ciò che la realtà detta attraverso l'esperienza, intellettuale e sensoriale.
(Per dirla con T.S.E.: una lamina di platino... )

Il bello è che, pur non imponendo a priori alcun limite, la realtà li pone da parte sua, a formare un percorso preciso;
la cosa strana è che questo percorso può coincidere con la più tranquilla delle tradizioni.

La poesia mi sembra una questione di aderenza allo sperimentato, in senso empirico.
I versi di Robert Smith sono un addensarsi di significato intorno a particelle di vissuto: si cristallizza una struttura che riceve bellezza e lucentezza direttamente dal proprio seme.

Essenzialmente, volevo dire che mi piacciono molto.

00 (18) Ivan 1

Di cose non ne ho poi fatte molte anche se a dire il vero i ricordi di un passato recente si confondono in me, questo per dire che ho il cervello un po’ ingarbugliato ....
la mia nozione del tempo è qualcosa di incredibile ...

Ho passato un periodo della mia vita bello ma anche molto tormentato, e come sempre accade nella vita di una persona ora sto cercando di mettere ordine e voltare pagina.

Finalmente ha smesso di piovere.
Erano settimane che si andava avanti, quasi quasi senza interruzioni.
Ieri e oggi sono state due giornate di sole, di quelle che fanno amare davvero l'autunno.

Ma come sempre il mal tempo continuerà nei fine settimana , non si vola quasi mai, per i funghi e' troppo presto, quando piove non puoi andare a camminare, allora che fare ?
Stare a casa? naa.... te ne vai in un rifugio e te la godi tutta.. solo che poi quando ritorni a bassa quota la sbronza si centuplica e ti stende.

Al momento sono incasinato.
Sto implodendo...




00 (19). Dire la verità





I difetti e le qualità.
Ombre incancellabili.
Non insegnano come si fa. Nessuno lo sa.
Ognuno trova il proprio volo per andarsene lontano. Il più lontano possibile.
Ogni mattina. E ogni sera. Ogni momento dell’esistenza lavoro per sopravvivere. Non sentire il dolore. Non soffocare di paura.
Ci vuole allenamento. Serve un esercizio fisico costante. Non si può non giocare.
Un passo alla volta.
Senza guardare la distanza.
Potrebbe uccidere, pensare alla distanza. A tutta la strada.
Un passetto alla volta. Un momento. Un altro momento. Un altro ancora. All’infinito.
No, non pensare all’infinito.
Io sono: qui e ora. In una stanza troppo calda e troppo piena di gente. Sulla sedia, in camera mia. Ovunque. Non ovunque. Hic et nunc, ricordi?
Non voltarsi mai quando si è fragili.
Niente ricordi.
Niente desideri. Niente emozioni. Niente più paura. Tutte le paure svaniscono.
Quella di sbagliare. Quella di fallire.
Quella dei troppi difetti. Delle mancate qualità.

La fretta di cambiare.

Protagonista assoluta del mio fumetto immaginario.
Il migliore mai scritto, perché sono il guardiano del faro.





Dire la verità.
Sono così naturalmente triste da fare paura.



L’estate è cominciata da troppo poco. Si resta chiusi in casa, o dovunque ci sia un po’ d’aria condizionata.
Ancora tre mesi così. Ancora tre mesi da sola.

000. Partenze.

Le mie coinquiline erano partite per le vacanze e anche Leo era partito, lasciandomi qui. O forse ero stata io a non andare con lui.
Inizialmente avevamo deciso di andarcene per un paio di settimane in giro con la macchina quell’estate, ma poi è saltata fuori quest’altra novità dai suoi amici.
Tre mesi in Messico in un cantiere di ricostruzione. Leo era entusiasta, mentre io vedevo sfumare le attese di tutto l’inverno in un solo istante.
Non potevo andare e in ogni caso non avrei voluto.
Per Leo invece era diventata una questione di vita o di morte –l’esperienza della vita– ed inoltre tutti i suoi amici avevano aderito all’iniziativa.
Mentre lo salutavo ancora non avevo accettato la sua partenza. Quando ci pensavo mi domandavo dove fossero finiti i nostri progetti, le nostre vacanze. E allo stesso tempo il paragone tra il Messico e il nostro piccolo girovagare mi pareva troppo crudele ed ingiusto.
Non volevo avercela con lui, ma non riuscivo a mettere d’accordo me stessa.

La casa era vuota adesso.
Un vuoto insopportabile, carico di delusioni.
Fiona, una delle mie due coinquiline non sarebbe più tornata qui.
Andava a casa sua non per le vacanze, ma per sempre. Aveva appena perso i genitori in un incidente stradale. Il suo ragazzo era venuto subito a casa nostra e l’aveva tenuta per mano, verso la fermata dell’autobus. Nell’altra mano stringeva una valigia e una l’aveva sulla spalla. Erano le due del pomeriggio e il sole batteva sulle loro teste. Io guardavo dalla finestra e salutavo. Non riuscivo a credere a tutto quello che era successo.
Con Daria, l’altra coinquilina, ci eravamo lasciate senza parole. Anche lei non riusciva a credere a quello che era successo.
Mi spingevo sul davanzale, seguendo l’ombra triste di Fiona e quella del suo ragazzo e le vedevo scivolare sempre più lontano, nella canicola. Verso la fermata del 20, che tante volte avevamo aspettato insieme. Allora ho pensato che non avrebbe preso il 20 mai più. Ed era una cosa veramente stupida da pensare.
Ho chiuso la finestra e mi sono seduta sul letto. Volevo mettere un disco, ma non riuscivo a scegliere. Saltavo con lo sguardo da un titolo all’altro, senza decidermi.
Ho lasciato perdere e sono tornata a sedermi sul letto.
Così eravamo rimasti solo io e Riccio, il mio gatto.

01. Una donna bionda in scarpe da tennis. (Air).

Lo stesso disco degli Air girava da ore.
Ho guardato dalla finestra: il cielo limpido era invaso dal sole. L’aria era soffocante, irrespirabile.
Cercare di rinascere. Trovare la mia strada.
Avevo il tempo per suonare e pensare a cosa sarei riuscita a fare tutta sola, o a diventare, se proprio lo avessi ritenuto indispensabile.


Si stava facendo sera.
Ma il lento sgocciolare dei minuti era solo apparenza.
Per favore resta.
Era come se dicessi. L’immagine di Leo diveniva scura davanti ai miei occhi, mentre allungavo le mani nel buio, nel tentativo di trattenerlo. Non andartene. Mentre svaniva.

La notte era su di me; sentivo la mia voce piangere, nel silenzio. Non finirà mai. Questa notte non avrà mai fine. Ti verrò a cercare. Ti troverò. Non posso stare qui. In questa eternità.
Ho riaperto gli occhi e c’era un bel tramonto, sulla città. Sono scesa ad imbucare una lettera.

Quella busta era il mio unico contatto col mondo, al momento – o forse solo il punto d’incontro tra due sistemi chiusi. Perché con Francesco quello era l’unico modo di comunicare. Non potevano essercene altri. Io aspettavo sempre le sue lettere e a volte dentro ci trovavo fotografie di paesaggi, che aveva scattato durante i suoi viaggi. Spesso sul retro scriveva commenti, o didascalie, o metteva semplicemente la data e il nome del luogo. Non so cosa avrei dato per riceverne una subito.

Una donna bionda in scarpe da tennis stava discutendo con il distributore automatico di sigarette e tirando calci alla serranda abbassata della tabaccheria.
- Ladra! Ladra!
Diceva, e i suoi capelli saltavano di qua e di là. infine è salita su una R5 bianca e ammaccata, ha sbattuto la portiera, ha fatto inversione e sgommando si è dileguata verso la tangenziale, lasciando la strada immobile e deserta. Il solitario richiudersi della cassetta postale aveva riportato il silenzio.

Io mi avviavo verso casa, dove mi aspettava una cena nauseante a base di tonno e purè in busta.

02. Sarà stato il silenzio forse. (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?)

Leo aveva appena chiamato.
Credevo di avere così tanto da dire…invece appena ho sentito la sua voce – e sembrava davvero vicino – mi sono svuotata di ogni cosa che avevo in mente e ho voluto solo sapere tutto di lui.
Due minuti.
Troppo poco, in ogni caso.
La gioia di sentirlo e la rabbia per l’interruzione. Tutto il non detto era rimasto lì, compresso in uno spazio troppo piccolo.
E poi, sarà stato il silenzio, forse, o non so cosa, ma è sembrato implodere e finire chissà dove. Nell cielo color porpora sopra via San Donato.

Stavo leggendo un libro di Dick.
Era da un po’ che non leggevo più. Mi veniva difficile trovare la concentrazione.
C’era già stato un periodo in cui non facevo che leggere – qualsiasi cosa – e vivere in storie d’altri.
Avevo voglia di gelato.

03. Si chiamava Mari Del Nord. (Silenzio).

Stavo in casa a ripararmi dal caldo, a far passare il tempo. Non rispondevo al telefono, se non a Leo; lasciavo squillare e non rispondevo.

Credevo che in tutto quel tempo avrei suonato, solo suonato. Avevo anche preparato un intenso programma di studio.
E poi credevo che avrei ascoltato. Sopra il letto, a luce spenta, ascoltato tanta musica. Avevo scaffali di cd e mi ero prefissata di scoprire i segreti di ciascuno.

Invece restavo in silenzio. Ore e ore. Giornate intere di silenzio. Scrivevo a Francesco lunghissime lettere immaginarie. E telefonate intense e sintetiche con Leo, sempre immaginarie.
Avevo fatto anche mezzo trasloco in puro silenzio, prima che arrivasse Daria a darmi una mano.

Lasciavo la mia stanza alla ragazza Giapponese che veniva a stare da noi, per trasferirmi in quella di Fiona, che era un po’ più grande.
Quella notte, mentre spostavo letti e armadi, vestiti e scrivanie Riccio mi aveva seguita ovunque.

Il giorno dopo c’era Daria ad aiutarmi e rompere il silenzio. Anche se sembrava non avessimo gran che da dirci.
Dopo il trasloco abbiamo passato il resto del pomeriggio al buio, a ritagliare fogli di carta.
Poi lei ha preso l’autobus verso la stazione.

Quel giorno ho appeso un quadro, sulla parete della mia nuova stanza. La fotocopia a colori, in realtà, di un quadro. Si chiamava Mari del Nord, o qualcosa di simile.




04. Poi ha squillato il telefono. (Maximilian Hecker).

Finalmente era sera e l’aria iniziava a muoversi.
Ho spalancato le finestre e chiuso gli occhi. Maximilian Hecker cantava nel mio vecchio stereo. Pensavo a Leo. Desideravo che fosse lì con me. Le ombre si allungavano sulla via; mi sentivo paralizzata, come se mi stessi sciogliendo sotto il sole, in mezzo ad un parcheggio d’asfalto fumante. La luna era un ciglio sottile; la guardavo, senza poter far smettere quella sensazione di immobilità che avevo dentro. Nella mia testa pulsavano migliaia di modi, situazioni diverse, che mi avrebbero riportato in me, ma non ricevevo suggerimenti. Poi ha squillato il telefono. Ho risposto subito, senza guardare.

Non era Leo.
Mentre Carlo parlava, pensavo all’ennesimo no che gli avrei detto e mi chiedevo se avrei inventato qualche scusa stavolta, per non uscire. O se gli avrei semplicemente detto che non ne avevo voglia. Mentre immaginavo la casa allagata, o di essere a letto con 40 di febbre, in realtà stavo assicurando – a lui come a me – che non sarei mancata alle riprese del suo lungometraggio.
Ero sorpresa e già pentita, ancora prima di riattaccare. E dovevo essere sul posto alle 5 di mattina.

05. Si preannunciava un temporale. (Charles Lloyd).

Erano passati più di tre anni da quando io e Allegra ci eravamo rivolte la parola per l’ultima volta.
Sono rimasta sorpresa, nel trovarmela davanti, quel giorno, aprendo la porta.
- Passavo da queste parti.
Mi ha detto, entrando in casa.
Le ho offerto da bere e lei si è seduta in cucina.
Ha incrociato le mani e iniziato a parlare.

Veniva da lontano, mi ha detto. Aveva molto da raccontare. Dei suoi viaggi, dei suoi incontri, di quello che aveva imparato giorno per giorno.
Le sue mani smuovevano l’aria oppure cingevano saldamente il bicchiere, colmo di tè freddo, e la bottiglia di plastica gialla.
Era abbronzata e vestita di lino, ai piedi portava sandali di cuoio.
I capelli neri erano intrecciati e raccolti da un pettinino d’osso.
La seguivo nei suoi racconti come potevo, perdendomi a volte –quasi inciampando- in qualche ricordo, di quando eravamo buone amiche.
Erano spigoli che riaffioravano come pietre dalla polvere.
Non potevo farci niente, tutto il passato era ancora vivo, nonostante tutto.
Dopo alcune ore stavo perdendo il filo.

Prestavo più attenzione alla musica che alle sue parole; nonostante si trovasse di fronte a me, solo all’altro capo del tavolo, stentavo a vederla. La sua immagine perdeva profilo diventando una figura confusa, quasi indistinta, proiettata davanti a me. Distinguevo solo la sua bocca ormai, distaccata dal resto della faccia e molto più grande, instancabile, in loop continuo, senza alcun segno di cedimento..
Dallo stereo in camera mia sentivo Charles Lloyd partire per il quarto giro.
O forse era il quinto.

Avevo messo quel disco proprio prima che Allegra arrivasse, perché mi sembrava buono per iniziare la giornata. Anche se, chiamandosi Voice In The Night sarebbe stato forse più indicato per una serata speciale, o di meditazione.
Fiona lo ascoltava spesso nel tardo pomeriggio, immersa nell’acqua fumante della vasca.

A me in quel momento era sembrato il mood più adatto, rilassato e intenso.
Ma ora faceva parte di una situazione immobile che avrei voluto rivoltare e la rilassatezza era diventata una trappola.

Forse potevo ancora alzarmi e mettere Steve Coleman con i Five Elements, annientando così l’immobilità che mi aveva quasi imbalsamata. Una piccola pausa al flusso di parole di Allegra e di pensieri mio, entrambi senza sbocco.
Non potevo più starmene seduta lì a quel modo.
Ma poi mi ero soffermata sulla chitarra di Abercrombie, accorgendomi che qualcosa stava già cambiando. Anche Allegra l’aveva percepito. Aveva teso le orecchie.

Le finestre sbattevano, il vento entrava prepotente: si preannunciava un temporale.
Guardavo il cielo con la coda dell’occhio. Finalmente l’aria si sarebbe rinfrescata.

06. Forse era la sera. (Style Council).

Riccio dormiva accanto a me, appallottolato come un peluche e alla TV c’era quella trasmissione di collegamento col Messico che faceva sembrare tutto finto.

I due presentatori in giacca e cravatta galleggiavano seduti su sedie da ufficio in uno studio televisivo reso invisibile da un triste effetto speciale: parlavano e parlavano, non capivo come quello che dicevano potesse avere a che fare con tutto ciò che accadeva alle loro spalle, dall’altra parte del mondo.
Alle spalle dei due uomini le persone sorridevano sotto il sole e, per qualche motivo, mi apparivano più vecchie. Cantavano, ballavano, sembravano veramente felici. Indossavano magliette colorate e sventolavano le bandiere del proprio paese. Tutto mentre qui era notte.
Pensavo che là dietro c’era anche Leo, da qualche parte.

Ho bevuto un sorso di pompelmo rosa, perché all’improvviso il vuoto che avevo dentro voleva essere riempito. Andava bene qualunque cosa.
Riccio si era svegliato e voleva giocare, ma era davvero tardi: l’unica cosa che restava veramente da fare era spegnere la televisione e andarsene a dormire. Chiudere più o meno dignitosamente un’altra giornata. Rimandare tutto all’indomani. Le solite cose.

Ma non avevo sonno, così mi sono aggirata per un po’ nel nuovo ordine della casa –non ancora completo- con Riccio che tendeva agguati dietro gli angoli e mi saltellava tra un piede e l’altro. Era ancora disorientato per la partenza di tutti. Come gatto Riccio aveva sempre amato confusione e compagnia. L’ho assecondato per qualche minuto, poi ho controllato che porta e finestre fossero ben chiuse e mi sono seduta sulla vasca da bagno, a raccogliere qualche altro pensiero, rimasto sparso in giro qua e là.

Una volta, qualche sera prima, avevo sentito la vicina della finestra accanto cantare la canzone di un disco che avevo fatto andare per tutto il pomeriggio. Era The Hole Point of No Return degli Style Council. Cantava questa canzone ed era notte, forse le due passate, con voce allegra. Poi diceva a qualcuno: Non sai cosa mi hai scatenato. E ricominciava a cantare.
Ricollocavo quella voce al suo posto, cercandone l’eco, ma ciò che mi arrivava erano solo movimenti d’acqua, in un’altra vasca da bagno, e luce flebile di candele.

07. Siamo sicuri che esista? (Scale e arpeggi).

Da quella volta, Allegra aveva preso a venire quasi tutti i giorni, qui a casa.
Le piaceva l’atmosfera, diceva.
Con il pianoforte, le stampe di vecchi film appese ai muri e i divani rossi, il silenzio intorno e il grande albero qui di fronte.
Quasi non sembrava di essere in periferia.

Si sedeva direttamente al piano di Leo e si metteva a studiare scale e arpeggi, per prepararsi all’esame. A ora di pranzo ci trovavamo in cucina.
Aveva sempre una mela e dell’insalata, che si portava da casa, o che comprava al supermercato prima di arrivare.
Si muoveva con naturalezza tra il lavello ed il frigorifero.
Le mie mani si fermavano nella plastica trasparente, a rigirarsi incerte tra la verdura presa al negozio in fondo alla via. Come una domanda trattenuta, a metà tra sorpresa e sgomento.
La osservavo pulirsi l’insalata e poi condirla oppure mangiare a morsi la mela in pochi minuti.
Ci sedevamo alle estremità opposte della tavola, come il primo giorno che era venuta.

Mi raccontava le sue storie scrutandomi con occhi attenti, poi tornava al piano e riprendeva a studiare. Durante la notte saliva sulla bici di suo cugino, che aveva cambiato città lasciandola qui, e se ne andava.

Ero in camera mia quel giorno.
Avevo chiuso la porta, ma il suono attutito del pianoforte mi raggiungeva ugualmente. Allegra stava eseguendo delle noiosissime scale ma non ne ero infastidita anzi, la tranquilla ripetitività del ritmo e degli intervalli, così prevedibile e priva di sorprese, mi stava cullando, spingendomi in un’atmosfera surreale e color ocra.
Leggevo un libro di Lansdale e ne ero totalmente rapita.
Da un momento all’altro il campanello avrebbe suonato, per rigettarmi impietosamente in quel caldo pomeriggio d’estate. Yuka, la ragazza Giapponese che prendeva il posto di Fiona, doveva venire a ritirare le sue chiavi di casa.

Qualcuno aveva suonato alla porta, ma non era Yuka. Era la postina.
Voleva sapere a chi doveva consegnare una lettera che giungeva –aveva detto proprio così– per via aerea, dal lontanissimo Giappone.
La postina suonava sempre da noi, quando non sapeva a chi consegnare le lettere.
Ma stavolta mi guardava con sospetto e mi diceva:
- Chi è questa…nomeimpronunciabile…che viene dal Giappone? Siamo sicuri che esista?
Io, ancora presa dalle pagine del libro, non capivo.
La guardavo, e chiedevo: Come? Cosa?
E mi veniva da ridere.
Non so perché, ma ridevo e proprio non riuscivo a fermarmi.

08. Alle cinque del pomeriggio. (Miles Davis).

Alle 5.05 a.m. ero con la mia vespa davanti alla serranda semi-aperta del locale in cui Carlo doveva girare.
Fin da subito c’è stato un gran daffare nel preparare gli oggetti di scena e nell’allestire la scenografia.

Nel cortile dietro il locale, una ragazza ancora mezza addormentata come me, dipingeva tre lampade con una bomboletta rossa. Le lampade erano tenute insieme da due tubi di plastica e lei colorava anche quelli. Un ragazzo le era chinato di fianco per tenerli fermi e rivoltarli di qua e di là. Avevano entrambi le dita delle mani verniciate di rosso. Mi sono unita a loro per un po’.

Io e il ragazzo ci siamo alternati nella funzione di assistenti.
Il mio incarico successivo è stato l’inventario degli oggetti di scena.
Avevo un elenco di tutti gli oggetti. Dovevo provvedere al loro recupero, rovistando tra le varie borse ammucchiate sul retro del locale.
Era una stanzetta minuscola, stipata di roba e senza luce. Mi sono servita di una torcia elettrica.
Il ragazzo dalle dita rosse di prima è venuto a darmi una mano, ad un certo punto.

Nel frattempo sul set stavano sistemando le luci.
Sentivo le voci degli altri e percepivo una certa tensione. Sapevo che in gran parte era dovuta al tempo: nonostante fossero solo le sette di mattina, iniziava a stringere.

Entro le cinque del pomeriggio dovevamo aver finito e sgomberato tutto, perché il locale doveva aprire di lì ad un’ora.
Il proprietario era stato tassativo.
I produttori, marito e moglie, si aggiravano tra i tavolini e la roba di scena, gli zaini e le luci, fingendo di detenere il controllo completo della situazione.
O forse illudendosi che fosse così.
Io vedevo solo un gran caos e speravo che in qualche modo potesse confluire – proprio non sapevo come, ma la davo come inesperienza mia– verso qualche risultato concreto.

Intorno a mezzogiorno tutto era finalmente dove doveva essere.
C’erano un grammofono, un vecchio telefono a rotella, le lampade verniciate di rosso, e altre strane cose disposte sul set in modo volutamente casuale.
C’era un senso di studiata imperfezione che infondeva una certa sicurezza.
Mi sono seduta sotto un tavolino insieme agli altri, per assistere in silenzio alle riprese.

Le finestre erano chiuse e le serrande abbassate, le luci di scena facevano un gran caldo. Il sudore mi scivolava lungo la schiena e sulle tempie. Mi sentivo dentro un forno.
Durante una pausa sono uscita con Daniele –il ragazzo dalle dita verniciate di rosso– per mangiare qualcosa.

Alle quattro del pomeriggio il mio lavoro era terminato e me ne sono andata.
Ero contenta, non vedevo l’ora di arrivare a casa per suonare un po’.

A casa, Yuka aveva appena finito di traslocare.
Era venuto Arthur a darle una mano. E adesso, mentre lei finiva di sistemare i vestiti nell’armadio, lui strimpellava al pianoforte.

Arthur era amico sia di Yuka che di Leo, con il quale suonava ogni due venerdì al ristorante siciliano di via Mascarella. È stato proprio in una di quelle serate che ci siamo conosciute, con Yuka. Fiona le aveva subito chiesto se volesse prendere il suo posto in casa nostra.
Sono andata a rinfrescarmi con una doccia.

Arthur aveva messo un cd.
Prima di andarsene, ci ha fatto ascoltare qualche pezzo da Round About Midnight, di Miles Davis;
- Devi sentire come riprende il tema, aspetta che mando avanti.
Io ascoltavo la musica, poi ascoltavo le sue parole e di nuovo la musica e rimanevo in orbita. Volteggiavo in un mondo fatto esclusivamente di verità e bellezza.

Perché Arthur, anche se spesso era davvero insopportabile, addirittura prosciugante, ha questo dono così semplice e fantastico, di farti amare quello che ama.





Sono andata a mangiare.

Ho perso il contatto col tempo.




Anche Yuka adesso era partita; non ricordavo quando aveva detto che sarebbe tornata.

09. Così siamo andati lontano. (Lifelike).

Daniele era più piccolo di me, ma soprattutto era bellissimo. Ci siamo visti quell’unica volta, dopo esserci conosciuti alle riprese ed esserci scambiati il numero di telefono. Quando ho risposto alla chiamata, la sua voce all’altro capo dell’etere era calda e fresca insieme, un vero sollievo nell’umido soffocante della città.

Era arrivato a casa mia sulla sua auto grigia e scassata che, tossendo e sbuffando si era fermata proprio sotto la mia finestra. Edo era sceso e aveva guardato in su. L’avevo salutato con la mano ed un sorriso. Sono andata ad aprirgli la porta.
Aveva portato con sé il suo sax soprano. Un dono ricevuto in eredità da un suo coinquilino che aveva terminato gli studi e se ne era andato, lasciandogli tutta la sua roba.

Così, per tutto quel pomeriggio, abbiamo suonato, Daniele ed io, nella mia camera nuova.
Lui seduto sul letto, io alla poltrona letto IKEA blu, che avevo sistemato accanto all’armadio.
Faceva davvero caldo. Il sudore gli colava dai capelli sulla faccia e sul collo, aveva la t-shirt inzuppata. Io non ero messa meglio, ma tanto non mi vedevo.
La sera abbiamo ordinato una pizza e poi siamo usciti.

Dato che lui era venuto in macchina, siamo andati lontano. Nella notte.
Dalle piccole casse gracchianti dell’autoradio usciva la musica degli UI.
Erano secoli che non ascoltavo quel disco. Lifelike.
Daniele preferiva Sidelong, ma non lo aveva più, qualcuno glielo aveva rubato, forse a qualche festa.
Strano, anche la mia copia di Sidelong era andata perduta.

Ci siamo fermati a bere una birra in questo posto ai confini del mondo. Un gruppo rock si accaniva con furia sugli strumenti. Una piccola folla saltava e pogava ai piedi del palco.

Tutto attorno si muovevano persone e parole in disordinate scie di fumo.
Mi aggiravo tra gli alberi con Daniele. Tenevo in mano il mio bicchiere di birra, guardandomi attorno. C’era un banco con il tiro a segno, e dei calcio balilla sparsi qua e là. Avevo intravisto anche un tavolo da ping pong. Alcuni giocavano a freesby col cane, altri invece dormivano sul prato. Noi ci siamo seduti su di una collinetta. Da lì si vedeva tutto. Ma ad un tratto c’eravamo solo io e lui, il resto era sparito in una nube indefinita di vuoto.
Il tempo non esisteva; silenzio e parole tra noi avevano lo stesso significato, e anche la brezza notturna, finalmente.

Non so dire per quanto tempo siamo rimasti là.
Ma ad un tratto non c’era più traccia del gruppo rock. Il palco era sgombro, niente più cavi, niente amplificatori. L’unica cosa rimasta era una solitaria asta di microfono. Proprio al centro. Inutile.
Una musica confusa usciva dagli altoparlanti.
La folla era diminuita, i calcio balilla sembravano abbandonati.
Ce ne siamo andati verso il parcheggio.
Dopo qualche lamento la macchina si è messa in moto e siamo ripartiti.

La strada era vuota. Si addentrava ondeggiando nella campagna, la città sempre più lontana, alle nostre spalle. Con la sua cappa di luce rossa a sovrastarla. Eravamo lontani anche da quei bagliori malati. Nel buio.
Stavamo costeggiando un campo di granturco.
Daniele aveva rallentato e sembrava cercare qualcosa. Sorrideva in silenzio. Poi ha svoltato a destra, in una strada sterrata. L’ho guardato e ci siamo messi a ridere.
- Facciamolo dai!
Diceva lui, e rideva.
Ridevo anch’io e dicevo:
- È passato così tanto tempo!
Alla fine siamo scesi e ci siamo presi per mano.
Poi lui ha detto
- Pronta?
E io:
- Andiamo!
E mi sono buttata.

Lui mi stava dietro, ma ci siamo persi subito.
Ci siamo ritrovati e poi rincorsi. E ancora persi.
Correvamo nel buio tra gli steli del granturco come bambini.
Eravamo bambini.
Urlavamo e cantavamo, correndo tra pannocchie e ragnatele, come entrambi avevamo fatto da piccoli chissà quante volte.
Poi con l’alba è arrivata anche la pioggia e siamo rientrati.
Era il giorno della sua partenza.

La luce vivida dopo il temporale.
Vorrei tanto poter suonare.
Vorrei saper dipingere.

Mi sono buttata sul letto e dopo un istante stavo dormendo.

10. Sedute sul pavimento. (Truffaz).

Yuka era tornata.
Finiva di sistemare le ultime cose e poi ripartiva per un corso estivo a Umbria Jazz.
Aveva visto qualche mio disegno appeso in camera e pensava di poter dedurre che ero depressa.

La luce rossa si diffondeva nella stanza e si confondeva con quella verde; la musica di Truffaz risuonava in una qualunque notte d’estate. Non ero depressa.
Anche se Yuka non ci credeva. Stavo solo cercando di chiudere alcuni cerchi lasciati aperti troppo a lungo; proprio perché non era così facile. Lo facevo stando sola.
Leo era lontano e forse non riuscivo a controllare il vuoto che questa lontananza mi aveva creato.

Sedute sul pavimento parlavamo sottovoce come se niente fosse di azioni e reazioni e circostanze.
Nonostante tutto mi piaceva essere lì.

Abbiamo aperto una bottiglia di vino e appoggiato i bicchieri sulle mattonelle bianche della stanza. Dalle finestre entrava l’aria fresca che seguiva il temporale.
Tutto poteva cominciare lì.

Il respiro caldo e graduato si appoggiava all’aria, allontanandosi dalla bocca, dai pensieri.
C’era una calma intima e densa.
L’italiano rigido e senza articoli di Yuka, mi faceva sorridere, mentre confrontava le sue teorie con la realtà. La sua voce disponeva ritmi sconosciuti, ricordi rauchi e ruvidi, irrinunciabili.

Io, contemporaneamente banale e decisiva, mi lasciavo coinvolgere dalla conversazione e dal vino. Era un Valpolicella che mi si adattava senza sforzo. A volte la desolazione delle pause era gelida ed imprevista, ma altrettanto breve.
Uno sgomento riconoscersi porzioni inesatte di realtà, costituita in gran parte da memorie imperfette e logore.
Le parole rimbalzavano susseguendosi, sulla musica fredda e superba di Bending New Corners.

Era un dolore silenzioso che rimane.
Era un conoscersi a fondo.

11. Era solo il II Principio della Termodinamica. (Mamet).

Pensavo che non sapevo cosa volevo e che non facevo mai qualcosa che mi piacesse veramente.
Perché niente mi piaceva.
Pensavo che tutto si consumava e che questo era solo il II Principio della Termodinamica.
E non mi piaceva per niente il Secondo Principio della Termodinamica.
Ma poi è finita piuttosto bene, perché sono andata al cinema e il film era bello e divertente, anche.








12. Dall’altra parte della stanza. (Una Festa: E Luxo So).

Dovevo cenare a casa di Ivan, dove poi ci sarebbe stata una festa con chi era rimasto in città.

Da lui c’era un gran casino, così abbiamo trangugiato una piada in fretta, per avere poi il tempo di sgomberare alla meglio e andare da un tipo di Milano, che alloggiava dall’altra parte della città, a prendere il mixer.

Ivan voleva usare il mixer con il giradischi, perché adesso gli era venuta questa fissa, tanto che ordinava scatoloni su scatoloni di Lp da internet. Gli arrivavano nel giro di una settimana e ne aveva così tanti che non riusciva più a starci dietro. Era tutta roba usata del tipo 12 dischi 12 euro, soprattutto colonne sonore anni ottanta,.

Siamo andati a prendere questo mixer accompagnati in macchina dal primo degli invitati, arrivato troppo in anticipo.
Non lo conoscevo, e prima di quella sera non l’avevo mai visto in giro, ma da subito l’ho trovato insopportabile.

Me ne stavo silenziosa nel sedile posteriore dell’auto a guardare i viali scorrere oltre il finestrino, a cercare di non innervosirmi troppo. Mentre lui guidava e continuava a parlare della sua stupida compilation, che girava nell’autoradio e aveva messo al massimo. Ivan invece era tranquillo, lo stava pure a sentire con partecipazione.
Alla fine poi non l’abbiamo neanche usato, il mixer.

A una certa ora è arrivata un sacco di gente.

C’erano bottiglie vuote ovunque, di birra per lo più, ma anche di vino. Su tutto il pavimento invece, si muoveva una massa informe e gelatinosa che mi faceva pensare alle sabbie mobili.

Nella stanza di Ivan era in corso un piccolo rave. La gente si accalcava a ballare la musica a tutto volume dei Chemical Brothers e dei Mouse On Mars. In cucina l’ambiente era più sul tribale e anche la musica seguiva il caldo andamento scombinato degli umori.

C’erano dei tipi seduti per terra a semicerchio, con un paio di Jambee e un Didjeridoo, insieme ad altri che cantavano a ritmo una musica senza parole. Intorno ballavano, bevendo la birra dalle lattine. Oppure mangiavano i resti di quella che doveva essere stata la dispensa di Ivan e delle sue coinquiline francesi, che quella sera non erano in casa.

Il corridoio e l’entrata erano una terra di nessuno, un crocevia dove alcuni sostavano parcheggiati contro le pareti, ma più che altro vi si vagava avanti e indietro, nel passare da una stanza all’altra.

L’aria era satura di fumo e c’erano sparsi dappertutto pacchetti vuoti di sigarette.
Io me ne stavo seduta ai piedi del letto di Ivan, ad ascoltare la musica, più qualche brandello di discorso preso a caso qua e là.
Vedevo tutto come da lontano, dietro una lente che filtrava i movimenti e li trasmetteva in differita. O come un film montato male, anche.
Volevo bere. Ne avevo bisogno, ma ero già troppo a terra. E poi la birra rimasta era calda e faceva davvero schifo.

Dalla porta stava entrando un ragazzo che non avevo mai visto. Era a braccetto con due tipe bionde e melliflue molto più alte di lui. Insieme ondeggiavano per la stanza e la gente si spostava per lasciarli passare.
Il mio sguardo e il suo si sono incrociati, scontrandosi con distorta violenza.
C’era stato uno sbalzo fremente, e all’improvviso mi sono trovata catapultata fuori dal tempo. Nessuna cognizione dello spazio né di me. Poi lui si è staccato dalla presa delle due bionde e dei nostri sguardi ed è andato allo stereo, a cambiare musica. Si è sdraiato sul letto e ha chiuso gli occhi.
Erano i Labradford, che aveva messo.

Ho chiuso gli occhi anch’io e quando poi li ho riaperti tutto era dilatato. I minuti, le conversazioni, le luci soffuse e colorate. I rumori sembravano ora irreali, e le persone erano fantasmi condannati a vivere lo stesso istante per l’eternità. Solo io mi salvavo, solo io ero fuori dal gioco. Ma ero triste, perché ero sola e avrei voluto entrarci. E invece tutto era dentro me. Entro le mie pareti di gesso scalfito, come qualcosa che è dato e tolto, strade devastate a colpire l’aria immobile della notte. Costellazioni e tramonti, sguardi abbandonati nel vuoto, ossa decomposte della curiosità, sentimenti imprecisi.
Io ero la musica.

Un ragazzo mi stava guardando, dall’altra parte della stanza. Lo conoscevo solo di vista. Era seduto su una vecchia sedia di legno massiccio, davanti al computer acceso di Ivan e mi fissava. Tra le mani si rigirava un bicchiere di vino. L’ho guardato anch’io, ma per un solo momento impercettibile, perché il suo sguardo sul mio era troppo fermo e mi chiamava, mi attraeva a sé e mi spaventava.

- Scusatemi.
Ho detto, e mi sono alzata. A fatica sono arrivata in cucina. Camminare era quasi impossibile. Il fluido sul pavimento aveva raggiunto livelli di emergenza e le persone stipate erano sempre di più.

Quando sono tornata in camera la musica era di nuovo cambiata e anche le persone mi sembravano diverse. La sedia era vuota adesso e quello sguardo insistente era svanito.


Poi è arrivata la polizia.

13. Non solo a me stessa. (Clifford Brown)

Yuka aveva organizzato a casa nostra una piccola cena per festeggiare il compleanno di Arthur.

Nell’aria stagnante e umida si rincorrevano senza sudare le note di Clifford Brown e il drumming di Max Roach, insieme alle voci degli invitati e al rumore di piatti e posate.

Aveva impiegato tutto il pomeriggio in cucina, a preparare curiose pietanze, in un misto tra cultura giapponese e sperimentazione mediterranea.
Gli ingredienti giusti non si trovavano tanto facilmente aveva detto, tutt’al più roba cinese, ma era diverso. Molto diverso in realtà. Solo per noi qui era tutto uguale.
E quindi erano venuti fuori quegli ibridi dall’aspetto vago ed inquietante.
Ma a lei non importava. Anzi, era molto soddisfatta del prorpio lavoro.
Inoltre avrebbe desiderato omaggiare Arthur con qualcosa dal gusto tipicamente francese, ma non ne sapeva proprio niente, Yuka, di cucina francese e così era andata dal panettiere a comprare un filone di pane, che adesso spacciava sfacciatamente per baguette.


Io invece avevo riordinato alla meglio e apparecchiato la tavola. Poi avevo preparato un tavolino in sala, per l’aperitivo, e acceso qualche candela. L’atmosfera era piacevole e invitante.
Mi ero seduta sul divano, con un bicchiere di prosecco, ad ascoltare la musica e i miei pensieri.
La mancanza di Leo era abissale, ormai. Cresceva in me giorno dopo giorno, qualsiasi cosa facessi pur di non pensarci.

Mentre tutti si divertivano e avevano cose da raccontare io mi sentivo un’estranea. Non solo a casa mia, non solo a me stessa.
Per qualche motivo strano avevo invitato anche Allegra quella sera.
Era venuta a sedersi di fronte a me, sul poof arancione, con una mano piena di noccioline tostate. Mi stava raccontando di essere appena tornata da un altro viaggio, breve stavolta. Una piccola master class, prima dell’esame, tenuto in un rifugio di montagna. Praticamente era stata costretta dall’insegnante a partecipare, o almeno io avevo capito così, ma non lo potrei proprio giurare, perché Allegra parlava e parlava e parlava. E come le altre volte, dopo un po’ non ne recepivo più nemmeno una, di tutte quelle parole che uscivano dalla sua bocca, in continuo ed infinito –quasi circolare– susseguirsi. La sua cantilena aveva incentivato il mio cervello a disertare e iniziavo a sentirmi un po’ come l’Homer Simpson della situazione.

Solo che io ormai ero persa nei miei vuoti. Non desideravo che chiudermi in camera, con la sola compagnia di Riccio, appallottolato sulla poltrona accanto al letto. Lasciare fumo e confusione a sbattere contro la porta di legno scuro della mia stanza. Gettarmi nell’oscurità e perdermi e non incontrarmi mai, rivissuta in quella mia mediocrità triste.

Ma stavo. Raccoglievo a spicchi altri e successivi sguardi di banalità, segnali ottusi e riscaldati di lenta ma esponenziale rovina.
Le finestre invece producevano riflessi sorridenti, rimanendo aperte e silenziose.
Definizioni perfette di rimpianto.

14. Si era fatto tardi. (Belle and Sebastian)

Ascoltavo i Belle and Sebastian, ma adesso il disco era finito.
Yuka era partita di nuovo.
Sono andata a rispondere al citofono, era Arthur. Salendo le scale mi ha detto che voleva stare un po’ da noi e mi ha chiesto se poteva suonare il piano. L’ho fatto entrare e gli ho offerto qualcosa di fresco. Abbiamo bevuto una spremuta, poi lui si è messo a suonare, mentre io finivo il libro di Dick.
Si era fatto tardi, così abbiamo cenato insieme con quello che era rimasto nel frigo e poi lui se ne è andato da qualche parte a suonare. O a meditare.

15. Una mezza scatola di cereali al miele. (Bonnie ‘Prince’ Billy).

Sono andata a fare la spesa, perché avevo il frigo vuoto e nella dispensa era rimasta solo una mezza scatola di cereali al miele tutti incollati.
Non avrei neanche potuto seguire il consiglio di un amico, che aveva pranzato spesso con una fetta di pane e olio e mi aveva appena suggerito via mail di fare lo stesso.
L’aria era sempre calda, ma le giornate si stavano accorciando.
Ancora poche settimane e Leo sarebbe tornato.

Giravo nervosamente per la casa, accostavo le imposte per ripararmi dal caldo, riordinavo, spostavo cose qua e là. Libri, cd, vestiti.

Riccio voleva giocare: l’ho accontentato per un po’. Quando si è abbandonato sul pavimento in cerca di refrigerio sono tornata al mio vuoto daffare.
Ho preso una lattina di coca dal frigo, che adesso era quasi pieno, e me la sono scolata direttamente.

Ho acceso lo stereo e ho messo a tutto volume I see a darkness di Bonnie ‘Prince’ Billy. Erano anni che non ascoltavo Will Oldham. Ho mandato avanti alla 3, per sentire la canzone che da il titolo all’album e l’ho lasciata in repeat.
La voce fragile e inconfondibile del bardo oscuro scavava nell’ombra della stanza. Seguiva percorsi minimali e raggiungeva il disperato silenzio di quel pomeriggio d’estate.

Mi stava prendendo una nostalgia malsana par il passato. Per emozioni passate.
Riccio mi aspettava ancora per giocare, ma io ero stanca ormai. Dovevo andare fuori, prendere aria, anche se calda. Avevo voglia di camminare.
Uscire da quel turbine di isolata distruzione.
Mi sono chiusa la porta alle spalle, lasciando la canzone in repeat.

Poi, mentre scendevo le scale, ha iniziato a piovere, e tanto è bastato a farmi precipitare all’indietro. Sono tornata in casa pensando che era meglio aspettare che smettesse.

Sedevo in silenzio e guardavo fisso la televisione spenta. A stento avrei riconosciuto la mia voce, mentre Bonnie ‘Prince’ Billy ricominciava a cantare I see a darkness per l’ennesima volta. Riccio si era accoccolato accanto a me, sul divano. Ho chiuso gli occhi  e mi sono addormentata  anch’io.
Ho cominciato a sognare.


FINE
Bologna, 2003