Martina Campi

09. Così siamo andati lontano. (Lifelike).

Daniele era più piccolo di me, ma soprattutto era bellissimo. Ci siamo visti quell’unica volta, dopo esserci conosciuti alle riprese ed esserci scambiati il numero di telefono. Quando ho risposto alla chiamata, la sua voce all’altro capo dell’etere era calda e fresca insieme, un vero sollievo nell’umido soffocante della città.

Era arrivato a casa mia sulla sua auto grigia e scassata che, tossendo e sbuffando si era fermata proprio sotto la mia finestra. Edo era sceso e aveva guardato in su. L’avevo salutato con la mano ed un sorriso. Sono andata ad aprirgli la porta.
Aveva portato con sé il suo sax soprano. Un dono ricevuto in eredità da un suo coinquilino che aveva terminato gli studi e se ne era andato, lasciandogli tutta la sua roba.

Così, per tutto quel pomeriggio, abbiamo suonato, Daniele ed io, nella mia camera nuova.
Lui seduto sul letto, io alla poltrona letto IKEA blu, che avevo sistemato accanto all’armadio.
Faceva davvero caldo. Il sudore gli colava dai capelli sulla faccia e sul collo, aveva la t-shirt inzuppata. Io non ero messa meglio, ma tanto non mi vedevo.
La sera abbiamo ordinato una pizza e poi siamo usciti.

Dato che lui era venuto in macchina, siamo andati lontano. Nella notte.
Dalle piccole casse gracchianti dell’autoradio usciva la musica degli UI.
Erano secoli che non ascoltavo quel disco. Lifelike.
Daniele preferiva Sidelong, ma non lo aveva più, qualcuno glielo aveva rubato, forse a qualche festa.
Strano, anche la mia copia di Sidelong era andata perduta.

Ci siamo fermati a bere una birra in questo posto ai confini del mondo. Un gruppo rock si accaniva con furia sugli strumenti. Una piccola folla saltava e pogava ai piedi del palco.

Tutto attorno si muovevano persone e parole in disordinate scie di fumo.
Mi aggiravo tra gli alberi con Daniele. Tenevo in mano il mio bicchiere di birra, guardandomi attorno. C’era un banco con il tiro a segno, e dei calcio balilla sparsi qua e là. Avevo intravisto anche un tavolo da ping pong. Alcuni giocavano a freesby col cane, altri invece dormivano sul prato. Noi ci siamo seduti su di una collinetta. Da lì si vedeva tutto. Ma ad un tratto c’eravamo solo io e lui, il resto era sparito in una nube indefinita di vuoto.
Il tempo non esisteva; silenzio e parole tra noi avevano lo stesso significato, e anche la brezza notturna, finalmente.

Non so dire per quanto tempo siamo rimasti là.
Ma ad un tratto non c’era più traccia del gruppo rock. Il palco era sgombro, niente più cavi, niente amplificatori. L’unica cosa rimasta era una solitaria asta di microfono. Proprio al centro. Inutile.
Una musica confusa usciva dagli altoparlanti.
La folla era diminuita, i calcio balilla sembravano abbandonati.
Ce ne siamo andati verso il parcheggio.
Dopo qualche lamento la macchina si è messa in moto e siamo ripartiti.

La strada era vuota. Si addentrava ondeggiando nella campagna, la città sempre più lontana, alle nostre spalle. Con la sua cappa di luce rossa a sovrastarla. Eravamo lontani anche da quei bagliori malati. Nel buio.
Stavamo costeggiando un campo di granturco.
Daniele aveva rallentato e sembrava cercare qualcosa. Sorrideva in silenzio. Poi ha svoltato a destra, in una strada sterrata. L’ho guardato e ci siamo messi a ridere.
- Facciamolo dai!
Diceva lui, e rideva.
Ridevo anch’io e dicevo:
- È passato così tanto tempo!
Alla fine siamo scesi e ci siamo presi per mano.
Poi lui ha detto
- Pronta?
E io:
- Andiamo!
E mi sono buttata.

Lui mi stava dietro, ma ci siamo persi subito.
Ci siamo ritrovati e poi rincorsi. E ancora persi.
Correvamo nel buio tra gli steli del granturco come bambini.
Eravamo bambini.
Urlavamo e cantavamo, correndo tra pannocchie e ragnatele, come entrambi avevamo fatto da piccoli chissà quante volte.
Poi con l’alba è arrivata anche la pioggia e siamo rientrati.
Era il giorno della sua partenza.

La luce vivida dopo il temporale.
Vorrei tanto poter suonare.
Vorrei saper dipingere.

Mi sono buttata sul letto e dopo un istante stavo dormendo.

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