Martina Campi

13. Non solo a me stessa. (Clifford Brown)

Yuka aveva organizzato a casa nostra una piccola cena per festeggiare il compleanno di Arthur.

Nell’aria stagnante e umida si rincorrevano senza sudare le note di Clifford Brown e il drumming di Max Roach, insieme alle voci degli invitati e al rumore di piatti e posate.

Aveva impiegato tutto il pomeriggio in cucina, a preparare curiose pietanze, in un misto tra cultura giapponese e sperimentazione mediterranea.
Gli ingredienti giusti non si trovavano tanto facilmente aveva detto, tutt’al più roba cinese, ma era diverso. Molto diverso in realtà. Solo per noi qui era tutto uguale.
E quindi erano venuti fuori quegli ibridi dall’aspetto vago ed inquietante.
Ma a lei non importava. Anzi, era molto soddisfatta del prorpio lavoro.
Inoltre avrebbe desiderato omaggiare Arthur con qualcosa dal gusto tipicamente francese, ma non ne sapeva proprio niente, Yuka, di cucina francese e così era andata dal panettiere a comprare un filone di pane, che adesso spacciava sfacciatamente per baguette.


Io invece avevo riordinato alla meglio e apparecchiato la tavola. Poi avevo preparato un tavolino in sala, per l’aperitivo, e acceso qualche candela. L’atmosfera era piacevole e invitante.
Mi ero seduta sul divano, con un bicchiere di prosecco, ad ascoltare la musica e i miei pensieri.
La mancanza di Leo era abissale, ormai. Cresceva in me giorno dopo giorno, qualsiasi cosa facessi pur di non pensarci.

Mentre tutti si divertivano e avevano cose da raccontare io mi sentivo un’estranea. Non solo a casa mia, non solo a me stessa.
Per qualche motivo strano avevo invitato anche Allegra quella sera.
Era venuta a sedersi di fronte a me, sul poof arancione, con una mano piena di noccioline tostate. Mi stava raccontando di essere appena tornata da un altro viaggio, breve stavolta. Una piccola master class, prima dell’esame, tenuto in un rifugio di montagna. Praticamente era stata costretta dall’insegnante a partecipare, o almeno io avevo capito così, ma non lo potrei proprio giurare, perché Allegra parlava e parlava e parlava. E come le altre volte, dopo un po’ non ne recepivo più nemmeno una, di tutte quelle parole che uscivano dalla sua bocca, in continuo ed infinito –quasi circolare– susseguirsi. La sua cantilena aveva incentivato il mio cervello a disertare e iniziavo a sentirmi un po’ come l’Homer Simpson della situazione.

Solo che io ormai ero persa nei miei vuoti. Non desideravo che chiudermi in camera, con la sola compagnia di Riccio, appallottolato sulla poltrona accanto al letto. Lasciare fumo e confusione a sbattere contro la porta di legno scuro della mia stanza. Gettarmi nell’oscurità e perdermi e non incontrarmi mai, rivissuta in quella mia mediocrità triste.

Ma stavo. Raccoglievo a spicchi altri e successivi sguardi di banalità, segnali ottusi e riscaldati di lenta ma esponenziale rovina.
Le finestre invece producevano riflessi sorridenti, rimanendo aperte e silenziose.
Definizioni perfette di rimpianto.

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