Martina Campi

08. Alle cinque del pomeriggio. (Miles Davis).

Alle 5.05 a.m. ero con la mia vespa davanti alla serranda semi-aperta del locale in cui Carlo doveva girare.
Fin da subito c’è stato un gran daffare nel preparare gli oggetti di scena e nell’allestire la scenografia.

Nel cortile dietro il locale, una ragazza ancora mezza addormentata come me, dipingeva tre lampade con una bomboletta rossa. Le lampade erano tenute insieme da due tubi di plastica e lei colorava anche quelli. Un ragazzo le era chinato di fianco per tenerli fermi e rivoltarli di qua e di là. Avevano entrambi le dita delle mani verniciate di rosso. Mi sono unita a loro per un po’.

Io e il ragazzo ci siamo alternati nella funzione di assistenti.
Il mio incarico successivo è stato l’inventario degli oggetti di scena.
Avevo un elenco di tutti gli oggetti. Dovevo provvedere al loro recupero, rovistando tra le varie borse ammucchiate sul retro del locale.
Era una stanzetta minuscola, stipata di roba e senza luce. Mi sono servita di una torcia elettrica.
Il ragazzo dalle dita rosse di prima è venuto a darmi una mano, ad un certo punto.

Nel frattempo sul set stavano sistemando le luci.
Sentivo le voci degli altri e percepivo una certa tensione. Sapevo che in gran parte era dovuta al tempo: nonostante fossero solo le sette di mattina, iniziava a stringere.

Entro le cinque del pomeriggio dovevamo aver finito e sgomberato tutto, perché il locale doveva aprire di lì ad un’ora.
Il proprietario era stato tassativo.
I produttori, marito e moglie, si aggiravano tra i tavolini e la roba di scena, gli zaini e le luci, fingendo di detenere il controllo completo della situazione.
O forse illudendosi che fosse così.
Io vedevo solo un gran caos e speravo che in qualche modo potesse confluire – proprio non sapevo come, ma la davo come inesperienza mia– verso qualche risultato concreto.

Intorno a mezzogiorno tutto era finalmente dove doveva essere.
C’erano un grammofono, un vecchio telefono a rotella, le lampade verniciate di rosso, e altre strane cose disposte sul set in modo volutamente casuale.
C’era un senso di studiata imperfezione che infondeva una certa sicurezza.
Mi sono seduta sotto un tavolino insieme agli altri, per assistere in silenzio alle riprese.

Le finestre erano chiuse e le serrande abbassate, le luci di scena facevano un gran caldo. Il sudore mi scivolava lungo la schiena e sulle tempie. Mi sentivo dentro un forno.
Durante una pausa sono uscita con Daniele –il ragazzo dalle dita verniciate di rosso– per mangiare qualcosa.

Alle quattro del pomeriggio il mio lavoro era terminato e me ne sono andata.
Ero contenta, non vedevo l’ora di arrivare a casa per suonare un po’.

A casa, Yuka aveva appena finito di traslocare.
Era venuto Arthur a darle una mano. E adesso, mentre lei finiva di sistemare i vestiti nell’armadio, lui strimpellava al pianoforte.

Arthur era amico sia di Yuka che di Leo, con il quale suonava ogni due venerdì al ristorante siciliano di via Mascarella. È stato proprio in una di quelle serate che ci siamo conosciute, con Yuka. Fiona le aveva subito chiesto se volesse prendere il suo posto in casa nostra.
Sono andata a rinfrescarmi con una doccia.

Arthur aveva messo un cd.
Prima di andarsene, ci ha fatto ascoltare qualche pezzo da Round About Midnight, di Miles Davis;
- Devi sentire come riprende il tema, aspetta che mando avanti.
Io ascoltavo la musica, poi ascoltavo le sue parole e di nuovo la musica e rimanevo in orbita. Volteggiavo in un mondo fatto esclusivamente di verità e bellezza.

Perché Arthur, anche se spesso era davvero insopportabile, addirittura prosciugante, ha questo dono così semplice e fantastico, di farti amare quello che ama.





Sono andata a mangiare.

Ho perso il contatto col tempo.




Anche Yuka adesso era partita; non ricordavo quando aveva detto che sarebbe tornata.

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