Martina Campi

07. Siamo sicuri che esista? (Scale e arpeggi).

Da quella volta, Allegra aveva preso a venire quasi tutti i giorni, qui a casa.
Le piaceva l’atmosfera, diceva.
Con il pianoforte, le stampe di vecchi film appese ai muri e i divani rossi, il silenzio intorno e il grande albero qui di fronte.
Quasi non sembrava di essere in periferia.

Si sedeva direttamente al piano di Leo e si metteva a studiare scale e arpeggi, per prepararsi all’esame. A ora di pranzo ci trovavamo in cucina.
Aveva sempre una mela e dell’insalata, che si portava da casa, o che comprava al supermercato prima di arrivare.
Si muoveva con naturalezza tra il lavello ed il frigorifero.
Le mie mani si fermavano nella plastica trasparente, a rigirarsi incerte tra la verdura presa al negozio in fondo alla via. Come una domanda trattenuta, a metà tra sorpresa e sgomento.
La osservavo pulirsi l’insalata e poi condirla oppure mangiare a morsi la mela in pochi minuti.
Ci sedevamo alle estremità opposte della tavola, come il primo giorno che era venuta.

Mi raccontava le sue storie scrutandomi con occhi attenti, poi tornava al piano e riprendeva a studiare. Durante la notte saliva sulla bici di suo cugino, che aveva cambiato città lasciandola qui, e se ne andava.

Ero in camera mia quel giorno.
Avevo chiuso la porta, ma il suono attutito del pianoforte mi raggiungeva ugualmente. Allegra stava eseguendo delle noiosissime scale ma non ne ero infastidita anzi, la tranquilla ripetitività del ritmo e degli intervalli, così prevedibile e priva di sorprese, mi stava cullando, spingendomi in un’atmosfera surreale e color ocra.
Leggevo un libro di Lansdale e ne ero totalmente rapita.
Da un momento all’altro il campanello avrebbe suonato, per rigettarmi impietosamente in quel caldo pomeriggio d’estate. Yuka, la ragazza Giapponese che prendeva il posto di Fiona, doveva venire a ritirare le sue chiavi di casa.

Qualcuno aveva suonato alla porta, ma non era Yuka. Era la postina.
Voleva sapere a chi doveva consegnare una lettera che giungeva –aveva detto proprio così– per via aerea, dal lontanissimo Giappone.
La postina suonava sempre da noi, quando non sapeva a chi consegnare le lettere.
Ma stavolta mi guardava con sospetto e mi diceva:
- Chi è questa…nomeimpronunciabile…che viene dal Giappone? Siamo sicuri che esista?
Io, ancora presa dalle pagine del libro, non capivo.
La guardavo, e chiedevo: Come? Cosa?
E mi veniva da ridere.
Non so perché, ma ridevo e proprio non riuscivo a fermarmi.

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