Martina Campi

00 (16) Arthur 1

Sono nato in un paesino sperduto sui monti della Francia.
A sedici anni ho lasciato la mia famiglia per trasferirmi a Parigi.
Ci ha pensato la vita a portarmi qui, almeno per il momento.

Una sera d’estate stavo camminando per le vie del centro. Ero solo e affamato. Tutti i miei amici erano via per le vacanze e le mie tasche erano vuote. Sentivo il caldo sciogliermi la cute, nonostante fossero quasi le dieci di sera.
Fame e inquietudine invece, mi squassavano lo stomaco.

Vidi un cancelletto aperto, che dava sul prato di una chiesa. Entrai ed il mio pensiero mi ricondusse per un istante a Parigi. Era buio, lì. E silenzio. Mi sedetti sul prato, la schiena poggiata al muro della chiesa. Rimasi così, per circa un’ora, a pensare.
I miei fratelli rimasti sui monti e gli altri sparsi per il mondo. Non ci sentivamo da anni. Non ricordavo più le loro voci, né quella di mia madre.
Quella di mio padre invece la sentivo, di tanto in tanto, rammentarmi gli aneddoti con i quali ci ha cresciuto, me e i miei fratelli. Quello era il suo modo di comunicare con noi, tramite aneddoti. E di insegnarci l’educazione e i fatti della vita. Molte volte non capivo, lì per lì. Allora il significato mi sarebbe tornato chiaro in seguito.

Mio padre. Un uomo di poche parole, che odia qualsiasi spreco. E per lui è stato un vero spreco vedermi partire senza certezze, come ho fatto.
Mi sembrava di sentirlo anche in quel momento, ripetermi una di quelle metafore sulla vita, e guardarmi con i suoi occhi duri, che nascondevano preoccupazione.
Ma poi era sbiadito, per restare un viso impresso su di un vetro, a muovere la bocca. Ed io non lo sentivo più.

C’era un caldo infernale, quella sera, continuavo a sudare.
Tirai fuori la tromba e intonai una ballata.
Lenta, quasi immobile.





È una strada che tutti dobbiamo percorrere: il ponte dei sospiri che porta all’eternità.
(I A 334, Kierkegaard).

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