Martina Campi

12. Dall’altra parte della stanza. (Una Festa: E Luxo So).

Dovevo cenare a casa di Ivan, dove poi ci sarebbe stata una festa con chi era rimasto in città.

Da lui c’era un gran casino, così abbiamo trangugiato una piada in fretta, per avere poi il tempo di sgomberare alla meglio e andare da un tipo di Milano, che alloggiava dall’altra parte della città, a prendere il mixer.

Ivan voleva usare il mixer con il giradischi, perché adesso gli era venuta questa fissa, tanto che ordinava scatoloni su scatoloni di Lp da internet. Gli arrivavano nel giro di una settimana e ne aveva così tanti che non riusciva più a starci dietro. Era tutta roba usata del tipo 12 dischi 12 euro, soprattutto colonne sonore anni ottanta,.

Siamo andati a prendere questo mixer accompagnati in macchina dal primo degli invitati, arrivato troppo in anticipo.
Non lo conoscevo, e prima di quella sera non l’avevo mai visto in giro, ma da subito l’ho trovato insopportabile.

Me ne stavo silenziosa nel sedile posteriore dell’auto a guardare i viali scorrere oltre il finestrino, a cercare di non innervosirmi troppo. Mentre lui guidava e continuava a parlare della sua stupida compilation, che girava nell’autoradio e aveva messo al massimo. Ivan invece era tranquillo, lo stava pure a sentire con partecipazione.
Alla fine poi non l’abbiamo neanche usato, il mixer.

A una certa ora è arrivata un sacco di gente.

C’erano bottiglie vuote ovunque, di birra per lo più, ma anche di vino. Su tutto il pavimento invece, si muoveva una massa informe e gelatinosa che mi faceva pensare alle sabbie mobili.

Nella stanza di Ivan era in corso un piccolo rave. La gente si accalcava a ballare la musica a tutto volume dei Chemical Brothers e dei Mouse On Mars. In cucina l’ambiente era più sul tribale e anche la musica seguiva il caldo andamento scombinato degli umori.

C’erano dei tipi seduti per terra a semicerchio, con un paio di Jambee e un Didjeridoo, insieme ad altri che cantavano a ritmo una musica senza parole. Intorno ballavano, bevendo la birra dalle lattine. Oppure mangiavano i resti di quella che doveva essere stata la dispensa di Ivan e delle sue coinquiline francesi, che quella sera non erano in casa.

Il corridoio e l’entrata erano una terra di nessuno, un crocevia dove alcuni sostavano parcheggiati contro le pareti, ma più che altro vi si vagava avanti e indietro, nel passare da una stanza all’altra.

L’aria era satura di fumo e c’erano sparsi dappertutto pacchetti vuoti di sigarette.
Io me ne stavo seduta ai piedi del letto di Ivan, ad ascoltare la musica, più qualche brandello di discorso preso a caso qua e là.
Vedevo tutto come da lontano, dietro una lente che filtrava i movimenti e li trasmetteva in differita. O come un film montato male, anche.
Volevo bere. Ne avevo bisogno, ma ero già troppo a terra. E poi la birra rimasta era calda e faceva davvero schifo.

Dalla porta stava entrando un ragazzo che non avevo mai visto. Era a braccetto con due tipe bionde e melliflue molto più alte di lui. Insieme ondeggiavano per la stanza e la gente si spostava per lasciarli passare.
Il mio sguardo e il suo si sono incrociati, scontrandosi con distorta violenza.
C’era stato uno sbalzo fremente, e all’improvviso mi sono trovata catapultata fuori dal tempo. Nessuna cognizione dello spazio né di me. Poi lui si è staccato dalla presa delle due bionde e dei nostri sguardi ed è andato allo stereo, a cambiare musica. Si è sdraiato sul letto e ha chiuso gli occhi.
Erano i Labradford, che aveva messo.

Ho chiuso gli occhi anch’io e quando poi li ho riaperti tutto era dilatato. I minuti, le conversazioni, le luci soffuse e colorate. I rumori sembravano ora irreali, e le persone erano fantasmi condannati a vivere lo stesso istante per l’eternità. Solo io mi salvavo, solo io ero fuori dal gioco. Ma ero triste, perché ero sola e avrei voluto entrarci. E invece tutto era dentro me. Entro le mie pareti di gesso scalfito, come qualcosa che è dato e tolto, strade devastate a colpire l’aria immobile della notte. Costellazioni e tramonti, sguardi abbandonati nel vuoto, ossa decomposte della curiosità, sentimenti imprecisi.
Io ero la musica.

Un ragazzo mi stava guardando, dall’altra parte della stanza. Lo conoscevo solo di vista. Era seduto su una vecchia sedia di legno massiccio, davanti al computer acceso di Ivan e mi fissava. Tra le mani si rigirava un bicchiere di vino. L’ho guardato anch’io, ma per un solo momento impercettibile, perché il suo sguardo sul mio era troppo fermo e mi chiamava, mi attraeva a sé e mi spaventava.

- Scusatemi.
Ho detto, e mi sono alzata. A fatica sono arrivata in cucina. Camminare era quasi impossibile. Il fluido sul pavimento aveva raggiunto livelli di emergenza e le persone stipate erano sempre di più.

Quando sono tornata in camera la musica era di nuovo cambiata e anche le persone mi sembravano diverse. La sedia era vuota adesso e quello sguardo insistente era svanito.


Poi è arrivata la polizia.

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